L’unità di misura del lavoro del ricercatore/tecnologo Stampa
Scritto da Administrator   
Giovedì 31 Maggio 2018 13:21

Nelle buste paga di questo mese, il personale CNR ha finalmente visto riconosciuti gli (ahinoi non ricchissimi) aumenti stipendiali previsti dalla parte economica della contrattazione che ha portato al rinnovo del CCNL (link).

Da un punto di vista normativo, il nuovo contratto ricalca in toto il precedente, salvo per alcuni piccoli punti. Tra questi, è interessante notare come sia rimasta sostanzialmente inalterata la parte relativa al tempo di lavoro del personale inquadrato come ricercatore e tecnologo. Nel nuovo CCNL, infatti, si conferma l’impostazione precedente, secondo la quale il lavoro del ricercatore non è misurato in giornate lavorative (come per altri livelli), bensì in ore. L’unica differenza, rispetto al precedente, del nuovo contratto è che questo sancisce che ciascun ricercatore o tecnologo debba svolgere 36 ore medie settimanali mediate su un quadrimestre, laddove nel precedente contratto la media era calcolata sul trimestre. Si tratta di una modifica che intende adeguare la normativa contrattuale a quella degli altri dipendenti pubblici e privati il cui monte orario medio è calcolato su base quadrimestrale e non trimestrale.

Appare chiara l’intenzione di chi ha redatto (ed approvato) il contratto: riconoscere in modo ancor più evidente l’autonomia e la flessibilità del lavoro del ricercatore/tecnologo, la cui azione non può essere ingabbiata in un computo giornaliero, dal momento che questo farebbe venire meno quella libertà che la Costituzione stessa riconosce come propria delle “scienze e delle arti”.

Naturalmente, tale libertà e autonomia deve armonizzarsi con il funzionamento delle strutture di afferenza. In presenza di una specifica necessità della struttura (ad esempio, il controllo di un esperimento o di una strumentazione), il ricercatore/tecnologo deve – a meno di opportune giustificazioni – garantire il proprio supporto.

Eppure, questo semplice concetto e la sua pratica implementazione ancora non trovano piena applicazione (azzarderemmo, piena comprensione) da parte dell’amministrazione dell’Ente. Sebbene siano circa vent’anni che l’orario di lavoro dei ricercatori è organizzato in questa maniera.

L’esempio di ciò è il nuovo sistema ePAS (http://epas.projects.iit.cnr.it/scelte-progettuali) per la rilevazione e gestione delle presenze del personale CNR, che dovrebbe portare all’apprezzabile risultato di garantire una gestione uniforme di questa tematica all’interno dell’Ente. Tale software viene “offerto” in fase sperimentale a quegli istituti che decidono di aderire.

Purtroppo però, ePAS non solo tradisce le attese, non riportando correttamente le prerogative contrattuali dell’orario di lavoro del ricercatore/tecnologo, ma è anche la rappresentazione plastica di una violazione del contratto e, come tale, non può essere accettabile.

In primo luogo, ePAS dà corpo all’erronea (a valor esser buoni) lettura che una parte dell’amministrazione centrale del CNR fa delle norme contrattuali, continuando ad identificare la giornata come unità di misura. Come ricordato poc’anzi, l contratto prevede un monte ore settimanale mediato sul quadrimestre, senza alcun obbligo di presenza giornaliera. Pertanto, il sistema dovrebbe limitarsi a registrare le ore che il ricercatore svolge ed eventualmente riportare le ore svolte nel periodo di riferimento (il quadrimestre), la media settimanale fino a quel momento ecc..

Tale obbligo, peraltro, non è esclusivo del nostro CCNL ma costituisce ormai il normale meccanismo di computo dell’orario dei lavoratori italiani e più in generale europei, visto che la normativa italiana recepisce una direttiva europea molto chiara sul punto.

Invece, ePAS non ammette che un ricercatore possa svolgere un giorno “zero ore”, senza la necessità di indicare un codice di assenza. Non occorre ricordare la formula della media per capire che ciò è in contrasto con le predisposizioni contrattuali. Ad esempio, è possibile che il ricercatore o il tecnologo, coinvolto su un esperimento per molte ore, completi le 36 ore (medie) tra il lunedì e il giovedì e che il venerdì di quella settimana non voglia lavorare più. Non si tratta di un recupero (non ha lavorato in eccesso, solo le trentasei ore che il contratto prevede), ma semplicemente che avendo completato il suo orario, il ricercatore non vuole o deve lavorare. Si tratta di un giusto corollario al fatto che, sempre per contratto, il ricercatore e il tecnologo organizzino autonomamente il proprio orario di lavoro, autocertificando alla fine del mese il proprio lavoro fuori sede. Oppure il nostro ricercatore potrebbe aver lavorato nelle settimane precedenti tanto da saturare la media oraria del quadrimestre tanto che, nell’ultima settimana di quest’ultimo, non potrebbe lavorare neanche un’ora senza superare la media delle 36 ore!

Insomma, siamo all’assurdo: il burocrate di ePAS vuole prevalere sulla legge e sul contratto!

Questo principio è messo bene in chiaro dal contratto, che, esplicitamente, afferma che il ricercatore non è soggetto ad alcuna forma di gerarchia nell’organizzazione della sua ricerca.

Anche sulle modalità di autocertificazione del lavoro svolto fuori sede, altro punto da sempre oggetto di fantasiose interpretazioni da parte dell’amministrazione, il software implementa una politica vessatoria per i ricercatori. Infatti, a seguito di una recente modifica, ePAS richiede di descrivere il luogo e la motivazione del lavoro fuori sede. Ciò contrasta con quanto descritto nel contratto, secondo cui il lavoro fuori sede non è soggetto ad alcuna forma di autorizzazione e controllo, se non quelli tipici dell’autocertificazione ovvero sulla veridicità di quanto dichiarato. Ma quanto dichiarato nell’autocertificazione è ben chiarito nel contratto e non può certo includere - come vorrebbe una parte dell’amministrazione centrale - la specificazione delle motivazioni, del progetto di ricerca ecc.., cose che presupporrebbero una verifica e un’autorizzazione delle attività di ricerca in contrasto con il contratto oltre che con la Costituzione. Oggi, forse, il CNR non giunge ad una preventiva autorizzazione dell’attività, ma la richiesta di indicare tali elementi non può che preoccupare in vista di un futuro e deprecabile controllo sull’attività del ricercatore fino a giungere alla richiesta di un’autorizzazione vera e propria, in contrasto non più soltanto con la legge e il contratto (e scusate se è poco), ma anche con una norma evidentemente considerata desueta quale l’art. 33 della nostra Costituzione.

Insomma, descrivere il luogo di lavoro come “pianeta Terra” e la motivazione con “ricerca scientifica” soddisfa pienamente le leggi che oggi regolano il lavoro dei ricercatori.

Per chiarire ulteriormente i termini della questione, è opportuno ricordare che ben due sentenze (l’ultima non appellata dal CNR che pertanto ha accettato i principi in essa contenuti) hanno stabilito che è perfettamente legittimo autocertificare - senza limitazioni di sorta - anche il lavoro in sede e che non possono essere imposte a ricercatori/tecnologi metodologie non previste dal contratto, come il rilevamento automatico della presenza. In quel caso, la cocciutaggine dell’amministrazione centrale è costata all’Ente ben 25.000 € di spese legali. A proposito, ci auguriamo che l’amministrazione abbia trasmesso la sentenza alla Corte dei conti per valutare l’eventuale danno erariale (oltre seicentomila euro di battaglie perse dal CNR in sede giudiziaria solo nell’ultimo anno su questioni che si potevano tranquillamente risolvere in sede extragiudiziaria, con minore costo e in minor tempo) causato da un evidente abuso delle funzioni dirigenziali.

E’ così?

Ultimo aggiornamento Giovedì 31 Maggio 2018 13:35