Se lavori, ti licenzio! PDF Stampa E-mail
Scritto da Administrator   
Mercoledì 20 Aprile 2016 15:24

È un pomeriggio della fine di luglio 2012 e stiamo facendo il solito invio di email ai ricercatori e tecnologi degli enti pubblici di ricerca per invitarli a non andare contro la legge, consegnando le autocertificazioni per il lavoro fuori sede e ricordandogli di non timbrare il cartellino. Riceviamo una mail di un ricercatore che ci dice di essere stato licenziato per iniziativa del suo direttore, perché trovato in istituto a fare il suo dovere, ma senza aver timbrato il cartellino. Leggiamo con stupore gli allegati ed effettivamente il direttore generale del suo Ente, su richiesta del suo direttore, lo aveva licenziato. Giriamo la mail al nostro legale, che prontamente ci avverte che i termini per fare ricorso di urgenza sarebbero scaduti entro due giorni e che il licenziamento sarebbe diventato definitivo. Ci mettiamo febbrilmente alla ricerca di un contatto telefonico del ricercatore, che naturalmente troviamo seduto alla sua scrivania in istituto.

 

Inizia così una storia di ordinaria follia, che forse avrete appreso da qualche comunicato sindacale circolato nei giorni scorsi, il cui esito ha un impatto significativo (e chiaro) sull'annosa questione della gestione delle presenze dei ricercatori e tecnologi degli enti pubblici di ricerca.

 

Seguendo il nostro consiglio, il ricercatore presenta il ricorso d'urgenza che il giudice del lavoro prontamente accoglie, reintegrandolo in servizio. Anche la sentenza di primo grado gli dà ragione su tutta linea, naturalmente diremmo noi, salvo per la decisione di compensare le spese tra le parti (il CNR e il ricercatore). Ma l'Ente non si dà per vinto e decide di ricorrere in appello pur di licenziare un ricercatore sorpreso a fare il suo dovere. Poco importa al direttore generale e all'ufficio legale dell'ente se quest'improbabile avventura può magari solo risultare in uno spreco di soldi destinati alla ricerca. La sentenza di appello dà nuovamente e ancor più pienamente ragione al ricercatore, come appare chiaro dalla decisione del giudice di rivedere la compensazione delle spese decisa in primo grado, questa volta condannando il CNR a pagare tutte le spese processuali (25000 euro). A questo punto, probabilmente distratto dalle incombenti vacanze pasquali, o forse impegnato a firmare gli ultimi decreti d'urgenza prima di passare la mano alla successiva dirigenza, il DG dimentica di ricorrere in cassazione per affermare fino in fondo il principio ineludibile: i ricercatori colti in fragranza mentre fanno ricerca vanno licenziati!

 

Sembra una notizia del sito web Lercio, ma purtroppo è la realtà.

 

A questo punto ci chiediamo:

  • Chi risponderà della alla decisione ottusa di fare appello dopo che già in fase di ricorso di urgenza e di primo grado i giudici avevano dato torto al CNR, e delle relative spese legali cui vanno aggiunti i danni causati per l'ingiusto licenziamento?
  • Oltre al danno erariale, qualcuno chiederà al direttore generale che ha disposto il licenziamento, al direttore d'istituto che ha richiesto la misura disciplinare dopo averne comminate altre in precedenza e al dirigente dell'ufficio legale che si è battuto come un Don Chisciotte di restituire le indennità di risultato (circa centomila euro l'anno) a coloro che hanno prodotto un simile danno economico e d'immagine alla ricerca italiana?
  • I suddetti servitori dello stato, avendo dimostrato nei fatti di non essere in grado di svolgere le loro funzioni, rassegneranno le dimissioni? Potranno in futuro ricoprire ruoli di responsabilità?

 

 

Non ci pare superfluo infine, ricordare che la posizione di Articolo33 sulla gestione delle presenze dei ricercatori e tecnologi, descritta in dettaglio nel nostro vademecum, ricalca alla lettera quanto sancito nella sentenza:

 

“In base al tenore letterale dell’articolo 58 CCNL, deve ritenersi non solo che ricercatori e tecnologi abbiano la autonoma determinazione del proprio tempo di lavoro ma che sia correlativamente esclusa l’introduzione di forme di disciplina dell’orario di lavoro e di controllo sull’osservanza dello stesso, salvo le eventuali determinazioni di una costituenda commissione paritetica. […] La disposizione contrattuale in esame in quanto detta una disciplina di autonoma determinazione del tempo di lavoro dei ricercatori, che è logicamente incompatibile con l’introduzione di forme di controllo, non prevede specifici divieti che sarebbe superflui”.

 

Del resto, entrambe discendono da una semplice lettura del  CCNL e non si basano su interpretazioni, preconcette e giuridicamente infondate, che introducono marcatempo, autocertificazioni limitate al comune della sede di lavoro, orario suddiviso in giornate lavorative o altre "innovazioni" introdotte da alcuni dirigenti della sede centrale meritevoli ogni anno di cospicue indennità di risultato.


 

Ultimo aggiornamento Venerdì 22 Aprile 2016 07:45
 
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